Un doc su Letizia Battaglia, un omaggio a Piersanti Mattarella
(dell'inviata Cinzia Conti)
Tra i tantissimi scatti di una
carriera lunga e mai doma come quella di Letizia Battaglia
rimane una delle più strazianti e potenti: quello che oggi è il
presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sotto choc, tiene
tra le braccia il corpo esanime del fratello Piersanti
massacrato nella sua auto dalla mafia mentre era presidente
della Regione Sicilia. E' il 6 gennaio 1980. Proprio per questo
la Rai ha scelto il 6 gennaio prossimo - come annunciato al Prix
Italia - per la messa in onda in seconda serata su Rai3 del
documentario "Il mio nome è Battaglia" dedicato alla fotografa e
giornalista palermitana innamorata della libertà che ha
raccontato con i suoi scatti iconici i crimini della mafia,
denunciato la corruzione, reso visibili gli emarginati, colto la
tenerezza dei bambini e la resilienza del corpo delle donne.
"Ci tengo molto a dire - spiega Fabrizio Zappi, direttore di
Rai Documentari - che abbiamo scelto il giorno della morte di
Piersanti Mattarella in maniera che possa essere anche un
omaggio alla sua memoria. Su di lui fu realizzato un
documentario parecchio tempo fa e sarebbe bello fare un nuovo
approfondimento" aggiunge.
"Il mio nome è Battaglia" è prodotto da Zenit Arti
Audiovisive e Nilaya Productions, in collaborazione con Rai
Documentari, France Télévisions e Histoire Tv, con il sostegno
di Centre national du cinéma et de l'image animée, Procirep -
Société des producteurs et de l'Angoa, Film Commission Torino
Piemonte - Piemonte Doc Film Fund, Mic - ministero della
Cultura, scritto e diretto da Cécile Allegra.
Zappi definisce Letizia Battaglia come "una donna
appassionata, piena di entusiasmo e di speranze, che non ha mai
smesso di combattere per le sue idee. E' un personaggio di
eccellenza il cui lavoro artistico e fotografico ha avuto un
grande consenso, e la presenza dei colleghi di France Television
lo testimonia. E' il ritratto di una figura che ha contribuito
in maniera sensibile al progresso civile del nostro paese".
"Questo documentario - ha spiegato Caroline Behar - France
Televisions, Unite' Documentaires - è soprattutto una storia di
comune condizione, forte e di grande impatto, che bisognava
raccontare da servizio pubblico ai nostri reciproci Paesi. Si
parla di libertà, di lotta per trovare la verità, di diritto di
emancipazione di una donna forte".
"La molla che mi ha spinto a seguire sin da subito questo
progetto - ha commentato Massimo Arvat, produttore di Zenit Arti
Audiovisive - è la particolarità di un personaggio come Letizia
Battaglia, il suo impegno civile, la sua passione, la sua arte,
che hanno contribuito a documentare e raccontare la storia della
lotta alla mafia. A due anni dalla sua scomparsa mi sembrava
arrivato il momento giusto per poterla raccontare con la giusta
distanza storica dandole il giusto valore".
Sposata a sedici anni, Letizia Battaglia si ritrova rinchiusa
nel suo ruolo di donna e madre nella Sicilia patriarcale degli
anni '60. Dopo una grave depressione, scopre la psicoanalisi,
divorzia e parte per Milano dove diventa fotogiornalista.
Fotografa la rivolta dei movimenti studenteschi e la vita
quotidiana degli emarginati. Nel 1974, viene richiamata in
Sicilia dal giornale l'Ora. In quel periodo, nel clan dei
Corleonesi, Toto Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella
si combattono per la conquista del potere. Regolamenti di conti,
corruzioni e traffici di droga fanno della Sicilia un territorio
in guerra. Vive "in apnea", macchina fotografica al collo,
telefono collegato 24 ore su 24, sempre pronta a saltare sul suo
scooter per coprire i crimini mafiosi. Donna in un ambiente di
uomini, diventa una delle poche a passare i cordoni di
sicurezza. Fotografa i morti, ma anche la quotidianità della
malavita, le donne in lutto, i bambini con un destino fragile,
un popolo divorato dalla povertà. Rende visibile l'invisibile, e
rompe l'omertà. Dà un volto alle vittime, ma anche un volto ai
criminali, e a coloro che li combattono. A partire dal 1987, si
impegna in politica a fianco del sindaco di Palermo, Leoluca
Orlando, per combattere la corruzione. All'inizio degli anni
'90, comincia una dolorosa discesa agli inferi. Il giudice
Falcone viene assassinato. Il 19 luglio 1992, è sul posto quando
il giudice Borsellino viene assassinato a sua volta. Si rifiuta
di fotografare la scena. Traumatizzata, decide di non recarsi
mai più sulle scene del crimine. Parte per un viaggio in
Groenlandia per cercare di dimenticare il suo passato e i suoi
"archivi di sangue" e di ritorno a Palermo fotografa solo i
bambini e le donne, queste siciliane che, in prima linea nella
lotta antimafia, rappresentano per lei una speranza di pace e
giustizia.